Commento Critico a

« La sera del dì di festa »
di Giacomo Leopardi

Autore del Commento
Roberto Di Molfetta

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Commento critico scritto anni fa, memore dei miei studi letterari privati.
Dedicato ai bei momenti della mia vita.


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Nota filologica
Poesia composta dal poeta Giacomo Leopardi probabilmente nella primavera dell'anno 1820. Venne alla luce prima col titolo “La sera del giorno festivo”, nella raccolta " Versi " del 1826, che precede quella più ampia dei " Canti ", edita a Firenze nel 1831. Pubblicata nel 1835 col titolo attuale e definitivo, a Napoli, dall'editore Starita. A quest'ultima versione facciamo riferimento.


Richiamo bibliografico
Tratta dai " Canti " - numero XIII - edizione Starita del 1835.


Metrica
Endecasillabi sciolti.


Inquadramento critico
Leopardi chiamò " Idilli " sei componimenti da lui scritti fra il 1819 e il 1821 (L'infinito, Alla luna, Lo spavento notturno – pubblicato col titolo di Frammento –, La sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria), a cui gran parte della critica successiva (contrario è il Fubini) darà il nome di " Piccoli idilli ", definendo invece " Grandi idilli " componimenti cui non sembra l'autore intendesse riservare tale denominazione.
L'uso del termine idillio fu suggerito a Leopardi dallo studio e traduzione del poeta bucolico greco Mosco, in particolare dell'opera spuria "Epitaffio di Bione", citata come esempio di celeste naturalezza nel “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”. Pertanto Leopardi dà al termine 'idillio' il senso di poesia intima, di sentimenti, contrapposta a quella più eloquente delle canzoni, come scriverà egli stesso in un appunto: "Idilli esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo".



La Poesia Commentata



Dolce e chiara è la notte e senza vento,



Sembra fondersi, con intento antideterministico ed evidentemente poetico, la luminosità della notte leopardiana con la dolcezza che talvolta sembra appartenere all'esperienza di quegl'uomini per cui le cose significano, teneramente, come simboli per le emozioni di un animo nobile, condiviso con ideali provenienti dal profondo della propria individualità, affatto usuali nei risultati forniti da scienza e discorsi tecnici. La citazione omerica è priva di quel “dolce” che, tipicamente lirico, vocabolo degli affetti, aggiunge, trasformandola, personale ricchezza di sentimento, d'animo contemplativo, alla descrizione realistica ma impoetica di una qualsivoglia serata. Il polisindeto successivo di varie 'e', più che un musicale staccato (Fernando Bandini: commenti in - Giacomo Leopardi, Canti, ed. Garzanti, 1999, pag. 123 -), identifica la pittorica osservazione di momenti diversi del paesaggio, che, insieme, delineano una partecipe contemplazione alla serena notte lunare.


e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna.


L'elenco di cosmici e terreni protagonisti come la luna, i tetti, gli orti e le montagne chiama con forza la testimonianza del silenzio poiché, fintanto che s'isolano creature apparse agli occhi distintamente, s'ignorano perché assenti suoni, romori o voci. Qui spenti. Poiché morendo o già morto il giorno, cambiano i rapporti tra le cose ed i loro suoni: più sensibile alle prime, l'animo s'allontana dal ricordo dei secondi, provandone l'assenza oltre ogni realtà.


O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:


Dopo l'intensa liricità dell'apertura paesistica, il poeta rafforza con minor bellezza poetica il precedente sentimento; funzionale, per noi e per la donna sua amata, ad introdurre quel vocativo gesto lirico ch'è il dialogo con la muta fata delle "chete stanze".


tu dormi, che t'accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna;


Immaginiamo, con partecipazione profonda e mesta, il Leopardi porsi come sventurato e dialettico ossimoro opposto umano nello scenario, silenzioso ma sereno, ch'alberga nel petto della donna. L'indifferente al di lui pianto.


e già non sai né pensi
quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m'affaccio,
e l'antica natura onnipossente,
che mi fece all'affanno.


Leopardi si spinge a spiegarci con chiarezza ciò che, con potenza, dignitosa fierezza e potenza, prima ha mostrato vivamente alla sua donna assopita. Ridondante, ma utile ad introdurre filosofia in virtù della poesia sublime. Necessario. Per Leopardi ma non per l'Arte. L'ispirazione di sensazioni vaghe, indeterminate e proprio per questo più intense nel loro lirico abbandono sentimentale, sull'onda di ricordi di paesaggi e di intuizioni dell'anima, si raggela qui, come altrove, all'apparir misero di tematiche personali vissute in una polemica maniera. Polemica contro la natura, che al poeta ha negato anche i mediocri divertimenti che illudono gli altri uomini, affrontata ora con termini dal sapore puerile e di un titanismo vagamente patetico.


A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.


Dietro la natura onnipotente par di intravedere, sveglia ma annoiata come una dama capricciosa, la donna, cieca all'affanno leopardiano.
Par quasi che i romantici sospiri del Leopardi lo allontanino, col loro poetar disperante, dall'oggetto stesso del desio, perdendo la partecipazione sentita del tempo e dei luoghi presenti nel quadro dell'idillio in affettata e mediocre digressione sentimentale.
Il Leopardi pare apprezzare più le tinte del crepuscolo in cielo che il sol ch'arde l'orizzonte del suo cuore, Aspasia. Perciò la poetica espressione langue, scolorando in forzata tecnica drammaturgica.


Questo dì fu solenne: or da' trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già, ch'io speri,
al pensier ti ricorro.


Determinato a negare speranza per sé stesso, Leopardi dubita, nel “forse”, come possano i pensieri dell'amata essere non puri, ma bensì compiaciuti di abbeverarsi alla fonte bramata del piacer alle persone gradite; cosa necessariamente impossibile (è il parere leopardiano), per fato supremo e proclamata constatazione, al nostro poeta.


Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate !


Giustamente la critica aborrisce quest'infelice nota per contenuto e forma. Il primo dispiace per l'uomo; la seconda è viziata, nell'essere vera poesia, dall'enfasi. Così il critico De Sanctis sull'opera tutta: “Sono stonature, qualche passaggio brusco, qualche tono troppo solenne e fin tragico, qualche reminiscenza classica.” (F. De Sanctis, Leopardi, Einaudi, Torino, 1960).
L'infelicità del poeta è viva nella mancanza di amore che lo porta, avendo perduta ogni speranza, a sentire il trascorrere del tempo come un inesorabile declino spirituale, uno spegnersi più che un vivere.


Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell'artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia.


Singulto d'anima sensibile, sembra possibile sentire la stessa emozione come vissuta da ogni uomo ch'abbia una stilla di sentimento nella coscienza sua. Il tempo, da questi versi sino all'ultimo, richiama l'attenzione del poeta, senza più abbandonarla. Al contrario della donna evocata nella parte iniziale. Il De Sanctis vedeva già come il Leopardi spesso fosse, nel suo poetare, esemplare a portar ne' versi quei vaghi ma potenti gesti della riflessione che, in passato, avvicinarono i primi uomini alla religione, alla filosofia, che nascono grazie e soprattutto ai moti più profondi dell'osservazione solitaria. Per divenire poi adulti nell'intelletto raziocinante ed in società per ultima.


Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov'è il suono
di que' popoli antichi ? Or dov'è il grido
de' nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
che n'andò per la terra e l'oceano ?


Centrale nell'intero universo filosofico leopardiano, e fulcro, luogo di riflessione portante e scaturente dal componimento, momento di generalizzazione storica di quella particolare attenzione che il Leopardi pone nell'accento poetico, altissimo, sul tempo, sul fluire dell'agire umano e sulla indifferenza in ultimo della natura creatrice d'ogni azione, individuale o collettiva, magnanima o quotidiana, compiuta dagli uomini. Il silenzio evocato dalle immagini notturne trascolora il senso del ricordo di suoni, rumori, e voci e grida che lontane, appaiono tingere l'animo del poeta, qui alla ricerca di un significato definitivo per il divenire delle cose; significato che possa trascendere, superandolo con motivato nesso, l'attimo e l'emozione presenti. Non sfugge, però, ad una certa declamante retorica (luogo dell'ubi sunt), propria dell'Arcadia melodiosa o delle scenografiche notti ossianiche, che incute più terrificante e sensistica emotività superficiale, attraverso un uso timbrico delle immagini non misurato con lungimiranza, che una sentita partecipazione alla memorialistica digressione, preparatoria nel contenuto al patetico finale (Cfr. Il De Sanctis "[...] da Leopardi non è uscita ancora la lirica. C'incalza ancora l'accademia, l'arcadia, il classicismo e il romanticismo. Continua l'enfasi e la retorica, argomento di poca serietà di studi e di vita" ).


Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.


“Silenzio nella notte dopo la giornata festiva, silenzio del mondo di fronte al trascorrere della storia” (da un'annotazione di Fernando Bandini). Di fronte al silenzio, Leopardi agisce, con intento di un misticismo che altrimenti non gli appartiene, da 'vate' del fragore antico ormai spento, in un espressivo contrasto che continua il tema iniziale del silenzio notturno.
Si nota nel sommo poeta lirico una tendenza, psicologicamente quasi determinabile, a conciliare gli opposti, a richiamare alla mente sua l'ossimoro dell'idillio nell'infelicità suprema, la sofferenza nel silenzio, dove questa prorompe con esiti espressivi più alti, nel ricercare il mito e la gloria accanto al canto di un umile artigiano, presenti coi versi della poesia seguenti, un artigiano che, celebrando col canto il sicuro ritorno all'ambiente domestico, echeggia sogni di sicurezze perdute dall'anima irrequieta ed errabonda del poeta, privo finanche della serenità nel silenzio e nella notte tranquilla e 'dolce'.
Rileva il Fubini (M. Fubini, in G.L., Tutte le opere, UTET, Torino, 1930) la presenza di un “tempo dell'animo”, che pone il lettore in uno stato di condivisione degli affetti vissuti dal Leopardi, al di là dei singoli eventi e del loro svolgersi in una collocazione cronologica oggettiva. In questo 'tempo' dell'individuo realtà e storia, coscienza e memoria si intrecciano nel drammatico conflitto della coscienza, disperata per un destino esistenziale sentito come certezza del e nel dolore.


Nella mia prima età, quando s'aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s'udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.


La struggente malinconia del pathos leopardiano viene accresciuta, nell'abbraccio finale di ricordi giovanili, dall'identità della situazione qui ricordata, cui la felicità, sentita come impossibile, preme altro dolore sul sentimento del poeta. Un silenzio immobile, un'estasi sospesa, un tiepido dolore chiudono il piccolo idillio.


Roberto Di Molfetta







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