Tratto dal messaggio del luglio 1944 del capitano di vascello Eiichiro Jo, comandante la portaerei Chiyoda, all'Alto Comando Imperiale:

" Non c'é più tempo di sperare di distruggere con mezzi ordinari le portaerei avversarie, numericamente troppo superiori.




Kamikaze

Gli ideogrammi che formano la parola Kamikaze,
la quale significa Vento Divino.


Prego dunque di formare al più presto un corpo aereo speciale i cui piloti saranno destinati a gettarsi direttamente contro le navi nemiche. Di questo corpo desidero assumere il comando."



MASABUMI ARIMAUn modello recente per i kamikaze. MASABUMI ARIMA (1895-1944). Compiuti gli studi all’Accademia Navale, ne divenne istruttore nel1934. Dopo lo scoppio bdella seconda guerra mondiale, nel '43 fu nominato contrammiraglio. Morì durante la battaglia delle Filippine, il 15 ottobre del '44, lasciandosi precipitare con il suo apparecchio sulla portaerei statunitense Franklin. L'esempio di Arima, anche per l'alto grado militare da lui ricoperto, suscitò grande entusiasmo e ammirazione in Giappone, fornendo un «modello» illustre per le future imprese dei kamikaze.

Il 15 ottobre 1944, di prima mattina, un'animazione insolita regna all’aeroporto Clark, nelle Filippine occupate dai giapponesi. ·Gli animi sono eccitatissimi perché la ricognizione ha avvistato una squadra navale americana al largo dell’isola di Luzon, la maggiore dell’arcipelago. Senza nemmeno attendere gli ordini specifici, il personale di terra lavora senza sosta attorno agli apparecchi dispersi lungo le piste e nei capannoni per oliare e verificare i motori, per fare il pieno del carburante a tutti i velivoli disponibili, per caricare le bombe e i nastri delle mitragliatrici.
Il contrammiraglio Masabumi Arima, comandante della 26° Flottiglia della Prima Flotta Aerea di Marina, riunisce in seduta straordinaria i suoi subalterni e chiede formalmente allo Esercito - è un fatto senza precedenti - di concedergli tutti gli aerei in grado di combattere affinché, per la prima volta, le squadriglie delle due Armi possano operare insieme in un’unica missione. L’autorizzazione è senz’altro concessa e Arima decide che l’attacco alla squadra navale americana [...] si svolgerà in due ondate. La seconda ondata sarà costituita da 13 bombardieri in picchiata Suisei, da 16 caccia Zero e da 70 caccia di tipo eterogeneo dell’Esercito.
Quando la prima ondata è già in volo, e mentre si allineano sulle piste di cemento gli apparecchi della seconda ondata, Arima in persona scende sul terreno insieme agli aviatori. Indossa una tuta qualsiasi e non reca le insegne del suo grado. Una luce strana brilla nei suoi occhi. Dice pacatamente: " Comanderò io la seconda ondata ". E’ contrario alle regole che un contrammiraglio rischi la vita per guidare personalmente i suoi uomini in una battaglia. Inoltre Masabumi Arima è amato da tutti per la sua bontà, la sua modestia e il suo carattere paterno. Gli aviatori si ribellano, non vogliono che un uomo come lui partecipi a un combattimento nel quale, come avviene ormai da più di un anno, le forze giapponesi saranno decapitate. Ma Arima è inflessibile: "Non si discute. Vengo con voi".

COME UNA METEORA IL COMANDANTE SI LANCIA SULLA PORTAEREI. Sebbene costernati, gli uomini non possono che inchinarsì alla volontà del comandante. Negli ultimi tempi lo si è visto pregare e meditare a lungo, in raccoglimento quasi estatico. Da settimane ha lasciato la sua lussuosa residenza per vivere come i soldati più umili, nutrirsi frugalmente e talvolta anche digiunare. Come se una fede al calor bianco, più che una febbre, lo divorasse; ma nessuno sospetta - od osa sospettare - qual è il vero proposito di Arima.
Si preferisce pensare che egli voglia partecipare di persona alla missione, in se stessa rischiosissima, solo per rendersi conto con i propri occhi dei dispositivi di difesa degli americani e delle possibilità offensive che ancora restano ai giapponesi in attacchi di quella specie. Arima sale, a bordo di un bombardiere Suisei e ordina al suo compagno di volo, un sottufficiale, di scendere. L’uomo è allibito; obbedisce. Certo è il primo a intuire che Arima sta per compiere un gesto disperato. La seconda ondata è in volo verso mezzogiorno. Tutte le pupille sono puntate sull’aereo di Arima, che dall’estemo non si distingue in nulla dagli altri dodici Suiseì. Gli Zero proteggono i bombardieri in picchia ta volando a una quota più alta di un migliaio di metri, i caccia dell’Esercito seguono a gruppi di cinque-sette apparecchi. Nel primo pomeriggio il Task Group 38/4, con anticipo più che sufficiente per far decollare i caccia imbarcati, localizza gli incursori. Immediatamente alcune squadriglie di Hellcats sfrecciano dai ponti di volo delle portaerei a muso in su, per correre la intercettare i nemici. I cannoni e le mitragliere contraeree delle navi sono puntati. Tutto è pronto per accogliere i giapponesi come, del resto, i giapponesi s’aspettano: lo sbarramento sarà infernale.

Così è, infatti. Presto il cielo si riempie di scoppi ed è rigato dalle rotaie luminose dei proiettili traccianti. Gli Hellcats sono implacabili. Sparano all’impazzata da lontano con le loro sei mitragliere Colt-Browning da mezzo pollice e subito diversi apparecchi giapponesi, che non hanno i serbatoi corazzati, esplodono letteralmente in volo, dissolvendosi. Gli Zero, più leggeri e manovrabili, si esibiscono come sempre nelle più ardite evoluzioni, ma sono braccati, azzannati, assaliti da tutte le parti. I Suisei, meno veloci, non riescono neppure a raggiungere le posizioni dalle quali tentare le picchiate sulle portaerei americane. Cadono come mosche. Tutti, tranne, uno. ll contrammiraglio Arima non è fuggito, s’è semplicemente nascosto in una nuvola per cogliere di sorpresa la grande nave di Davison, la portaerei Franklin. Eccolo gettarsi dritto in quella direzione e scendere come una meteora. Ecco la Franklin ingigantire davanti agli occhi di Arima. E’ un attimo. Un vivido bagliore color rosso-arancio, una nuvola di fumo denso e di fuoco. Il Suisei, con il suo carico di tre quintali di bombe, si è polverizzato sul ponte della Franklin. Esterrefatti, angosciati, ma anche pazzi di entusiasmo, gli aviatori giapponesi scampati alla furia degli Hellcats hanno assistito al sacrificio supremo del loro comandante. Intanto, sotto ai loro sguardi, una serie di deflagrazioni si succede sulla portaerei ferita. L’incendio seguito allo scoppio delle bombe e dei serbatoi del Suisei ha raggiunto un deposito di munizioni. Fortunatamente per gli americani, non il principale. Le squadre di soccorso lottano freneticamente per salvare la nave, e alla fine ci riescono. Ma la Franklin, malconcia, inclinata su un fianco, per il momento inservibile, dovrà raggiungere una base di riparazione e resterà lontana per qualche tempo dai teatri di guerra.

E’ DIMOSTRATO CHE L’ATTACCO SUICIDA RENDE DI PIU’. Arima ha dimostrato che l’attacco suicida paga assai più di quello convenzionale, purché sia sferrato in modo astuto e al momento giusto. Rientrando all’aeroporto Clark, i testimoni del gesto del contrammiraglio - non molti, più della metà sono caduti - riferiscono ai compagni, emozionatissimi, tutti i dettagli dello stupefacente episodio. Esso vola di bocca in bocca per tutte le Filippine, e da lì rimbalza a Formosa. Prima di sera è già conosciuto a Tokyo, e avrà un peso determinante nelle risoluzioni che saranno prese nei giorni immediatamente successivi.

GRIDANO DI GIOIA I PILOTI PRESCELTI PER IL SACRIFICIO [...] Sia come sia, la decisione è stata presa. Una decisione tutta giapponese, inconcepibile per qualsiasi occidentale. Domani sarà un giomo nuovo della Storia. Prima che scenda la notte, ventitré giovani piloti della 201* Squadra so- no convocati da Tamai. Nessuno di loro sa cosa abbia da dire il vicecomandante, ma forse qualcuno ne ha il presentimento. Tamai parla a lungo, illustrando la disastrosa situazione strategica e non nascondendo che il Piano Sho, quand’anche riuscisse, non risolverebbe una volta per tutte gli angosciosi problemi del Giappone. Ma il Piano Sho deve riuscire a qualunque prezzo. Dopo, se ogni giapponese saprà continuare a lottare fino allo. stremo delle forze, l’Impero potrà forse essere salvato. I ragazzi, il capo chino come innanzi a una predicazione religiosa, ascoltano muti e assorti. Allora Tamai, facendo violenza a se stesso, le mascelle contratte, espone il progetto del viceammiraglio Onishi. E qui accade una cosa straordinaria, più che mai al difuori della portata mentale di un uomo dell’Occidente. Tamai non riesce neppure a finire il discorso perché, tutti e ventitré, i ragazzi della 201a esplodono in un formidabile Tenno Banzaì! (Diecimila anni di vita all’Imperatore!), dopodiché s’abbracciano l’un l’altro, fanno salti di gioia, sommergono Tamai con il loro entusiasmo. Isteria collettiva? No. E’ il frutto di duemila anni di shintoismo, di dedizione totale e assoluta alla tradizione gloriosa degli antenati, della convinzione radicata di essere i depositari della più alta anzi, dell’unica vera civiltà mondiale, e della certezza che morire per il Giappone significa rivivere in un mondo epico popolato di Eroi, venerati e osannati dai mortali che resteranno. Sono uomini in carne e ossa. Anch’essi hanno dei sensi, sanno cos’è la felicità e l’infelicità terrena. Non sono indifferenti alla vita corporea. Hanno tutti, più o meno, dei problemi quotidiani che non riguardano lo shintoismo né l’Imperatore né gli antenati né il Giappone. Però, da sempre, posseggono una carica emotiva e passionale che supera e cancella i valori dell’esistenza comune e lo stesso spirito di conservazione. Un europeo di oggi e di ieri non può capire.

Dal 25 ottobre 1944 sono morti 4.615 piloti suicidi: 2.630 kamikaze della Marina e 1.985 tokubetsu dell’Esercito. Se si pensa che, in tutta la guerra del Pacifico, le Forze Armate del Giappone hanno avuto 1 milione e 129.000 morti, e che i civili giapponesi uccisi in pochi mesi di bombardamenti incendiari sono stati all'incirca 2 milioni (il triplo che in Germania, 30 volte più che in Inghilterra e in Italia), il numero dei piloti suicidi sacrìficati può sembrare, anzi è, estremamente esiguo. Ma è un confronto che non regge. Una cosa è morire quando si è sorpresi dalla morte, un’altra cosa è scegliere di morire, e sceglierlo addirittura in una forma organizzata. Nemmeno i suicidi « individuali » di molti aviatori giapponesi, prima e dopo che venissero istituiti i Corpi Speciali, nemmeno le travolgenti cariche-banzaì dei soldati, da Attu a Okinawa, nemmeno le azioni dei sommergibili tascabili, dei siluri umani e degli altri mezzi disperati messi in opera dalla Marina, possono paragonarsi alle missioni dei kamikaze e dei tokubetsu. Gli uomini del Vento Divino non hanno salvato il Giappone dalla disfatta militare. Il Giappone non poteva vincere in nessun modo.



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Roberto Di Molfetta





  MATERIALE TRATTO E RIVISTO DA:

- « I Kamikaze », collana "I Documenti Terribili", A. Mondadori Ed.






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