Estratti da un'intervista, pubblicata su Rai
Educational, a Pierre Bourdieu - "Ragione e Storia" - maggio 1994
BOURDIEU: [...] La domanda di fondo, a cui è difficile rispondere, è sapere se la
storicizzazione implichi relativizzazione, e se la scienza che storicizza -
cioè la scienza sociale - non distrugga i propri fondamenti dato che essa deve
storicizzare se stessa, e quindi, di conseguenza, relativizzare se stessa.
Questo argomento viene tirato fuori periodicamente. I filosofi - anche se non
quelli migliori - riscoprono periodicamente questo argomento, il quale è stato
quindi molto usato. Per esempio, un grande fondatore della sociologia come Max
Weber per tutta la vita si è dibattuto in questo problema.
[...]
E' vero che il sociologo o lo storico sociale (che sono in fondo la stessa
cosa) riporteranno questi prodotti dello spirito umano - si tratti di
matematica o di letteratura, ecc. ecc. - alle condizioni storiche di
produzione; più precisamente ancora, cercheranno di riportare le produzioni
particolari di uno storico, di un sociologo, di un filosofo, o di un matematico
particolare alla posizione specifica occupata da questo produttore culturale
nel mondo sociale del suo tempo. In tutti i campi abbiamo lo stesso dibattito,
che sia nel campo del diritto, della letteratura o dell'arte (l'arte è il
terreno di confronto più tipico). Quasi sempre il dibattito si organizza
interamente attorno ad una grande opposizione: tra quelli che chiamerò gli
"internalisti" e gli altri. Gli internalisti pensano che si possano
riportare le creazioni culturali a se stesse e solo a se stesse; e cioè, per
comprendere un testo di James Joyce o di Virginia Woolf, o un quadro di
Mondrian, ecc., il solo riferimento è l' opera stessa - o, a rigore, lo spazio
delle [costituito dalle] opere. Per i formalisti russi, ad esempio, sarà lo
spazio delle opere in cui ognuna di esse verrà riportata all' altra. Per
esempio Lévi-Strauss, quando studia con Jakobson un sonetto di Baudelaire
-
INTERVISTATORE: Quale ?
BOURDIEU:..."Les chats" ["I gatti"] di Baudelaire -
prende questo sonetto e lo studia in sé e per sé senza alcun riferimento al
contesto storico, e nemmeno al resto dell' opera di Baudelaire, nella quale pur
troviamo una dozzina di poesie che parlano di gatti, e che potrebbero fornire
delle chiavi per capire quel sonetto particolare. Ma loro si limitano a quella
sola poesia. Questo atteggiamento "internalista" è molto comune, e
oggi ha subìto una sorta di "aggiornamento" [in italiano nel testo
-NdT]: è l' atteggiamento classico del Professore
[...]
I professori sono dei "lectores", essenzialmente dei lettori che
leggono testi, e che addirittura leggono i quadri come se fossero testi. Nel
periodo semiologico, chiamato in Francia strutturalismo, gli interpreti
dicevano "adesso leggiamo quel quadro". Loro prendono tutte le
produzioni culturali come dei testi che occorra decifrare.
"Decifrare" significa che c'è una cifra, nel senso di un codice, e
che bisogna reinventare questa cifra per decodificare. "L' opera è in sé
autosufficiente": questa è la filosofia spontanea della lettura propria,
in fondo, della maggioranza dei produttori culturali, i quali pensano che le
loro opere abbiano in se stesse le loro chiavi, e che non serva a nulla andare
a guardare fuori [di esse] per capirle. La posizione opposta, molto classica,
spesso associata al marxismo, consiste nel riportare il testo al contesto, alle
condizioni storiche ecc. E qui incontriamo autori molto diversi...
Glossa RDM: qui le posizioni, apparentemente dicotomiche, potrebbero ricomporsi nella semplice idea che è inutile scindere l'analisi dell'opera in sé stessa e le conoscenze sul contesto in cui è stata generata, addirittura vedendo come inconciliabili le due tendenze culturali. Altro non sono i due momenti che il conoscere l'oggetto e il conoscere ciò che lo ha determinato; il cos'è e il cosa l'ha generato. I filosofi dimostrano quello che è un vizio atavico: quello di dividersi facilmente in schieramenti, scaturiti dalla ripetizione di secolari discorsi filosofici sempre uguali piuttosto di considerare possibili soluzioni alternative pur non incuneate nel solco della tradizione. Bourdieu parla di chi vuol considerare l'opera e di chi, approfondendo la conoscenza storica su ciò che era intorno all'opera, vuole arrivare a conoscerla tramite un percorso diverso. Ma se è assurdo conoscere qualcosa senza analizzarlo direttamente, lo è altrettanto pretendere di concepire superflue tutte le informazioni su ciò che lo ha generato. Conoscere veramente bene una donna francese, "un'opera umana", se vogliamo considerla tale, è evidentemente sia conoscere lei stessa che la famiglia di provenienza, la nazione dalla quale è stata educata, istruita, le esperienze, positive o negative che ha avuto nella sua Francia storicamente viva. Scopriamo così che le abitudini di quella persona sono quelle anche della sua famiglia, di una popolazione, di una regione della Francia, cioé della società francese. Questa concittadina del compianto Bourdieu è sia completamente se stessa sia, inevitabilmente, simile, per molte caratteristiche, ad altre francesi, le quale possono, e, aggiungo, dovrebbero, tempo permettendo, essere conosciute tramite una visione totale, non limitata a questa o quella persona ma neanche ad un sociologismo semplificante. Un'opera musicale che venisse conosciuta come isolata non permetterebbe di sapere quali influenze l'hanno generata, influenze che sono sia individuali che sociali (basti pensare all'abitudine austriaca di suonare musica strumentale all'aperto come determinò, in quel periodo, la composizione mozartiana di "Eine kleine nachtmusik"). Più avanti nel testo Bourdieu si allinea su questa seconda ipotesi. RDM -
INTERVISTATORE:Ci può fornire qualche nome significativo di questa posizione ?
Bourdieu: E' il punto di vista di Lucien Goldmann in Francia, o di Lukacs nella
tradizione germanica; in pittura abbiamo un grande specialista del
Quattrocento, Frédéric Antal, che ha pubblicato cose davvero notevoli [su
questa linea]. Troviamo studiosi molto diversi, e in campi molto vari [che si
ispirano a questa filosofia]. Ad esempio nel diritto, troviamo la stessa
posizione. Quando si va un pò oltre la propria specialità - sfortunatamente
gli storici dell' arte fanno solo storia dell'arte, gli storici della
letteratura sono solo storia della letteratura, ecc. - allora ci si accorge che
ci sono esattamente gli stessi dibattiti nelle diverse discipline. A mio avviso
si può superare un po' questo dibattito in modo alquanto sano, dicendo che i
testi (o i dipinti, o altro), certo, esistono in modo indipendente dalle loro condizioni di produzione, ma costituiscono un sistema (ad esempio tutti i testi di una data epoca). E' stato questo il grande contributo dei formalisti russi:
i testi di un' epoca costituiscono un sistema, e per capirli bisogna
praticare... bisogna partire da un postulato di intertestualità, cioè bisogna
pensare che i testi si parlino tra di loro.
[...] Vale a dire un piccolo universo, che è un universo sociale nel quale i poeti
sono in concorrenza con i poeti, i matematici con i matematici, gli storici con
gli storici, i sociologi con i sociologi, ecc. All' interno di ognuno di questi
mini-universi ci sono delle abitudini mentali, per parlare come Foucault, delle
maniere permanenti di pensare, di percepire e di apprezzare il mondo che sono
socialmente costituite - sono delle categorie sociali della percezione, per
farla breve. E ci sono anche degli interessi - non nel senso di Bentham,
"gli interessi infami", ma in un senso molto particolare: ad esempio,
gli interessi che vi spingono a confutare un teorema; oppure sono gli interessi
che vi spingono a dire "non è più possibile fare poesia in questo modo,
siamo stufi -come diceva un poeta- del ronron poetico, ci vuole qualcosa di
nuovo", ecc. E per capire quello che accade in questi universi del
pensiero, bisogna conoscere allo stesso tempo da una parte lo spazio dei testi,
lo spazio delle possibilità, con le quali un creatore farà i conti, e d' altra
parte lo spazio delle lotte sociali, delle lotte di concorrenza, delle lotte per
la priorità. Sappiamo bene che la storia delle scienze, per esempio, è piena di
storie sinistre: furti di idee, plagi, e simili (a Roma sono stato personalmente molto
VICINO, biograficamente, a questa frase, ndRDM). Tutto questo va preso [in
considerazione].
Qui il problema del relativismo si pone in altro modo. Penso
che la soluzione di questa contraddizione apparente verrà proprio da qui...
Praticamente tutti i filosofi, soprattutto del XIX secolo, hanno preso come
punto focale della loro riflessione questa domanda: "Come, senza postulare
l' esistenza di una rivelazione trascendente, si può sfuggire alla Storia? Come
si possono strappare delle verità, dei valori -quali la bellezza, la verità-
alla Storia senza tornare ad una sorta di platonismo, a delle essenze del Vero,
del Bello, del Bene, ecc.?" Penso che, a partire da questa idea di campo,
si possa rispondere [in un modo soddisfacente]. Oggi, ad esempio, si prenda la
matematica, una delle discipline più universali, nel senso che il campo della
matematica è mondiale (i matematici hanno una specie di lingua universale, si
comprendono tra di loro grazie ai loro simboli [matematici], anche se non si
capiscono per le loro lingue nazionali). Dunque, il campo della matematica è
coestensivo all' universo; e all' interno di questo campo ci sono persone che
lottano per la Verità con delle armi del tutto particolari. Il centurione
romano che taglia la testa ad Archimede non riporta una vittoria matematica,
mentre chi confuta un teorema riporta una vittoria matematica con armi matematiche.
Nul n' entre ici qui ne soit géomètre vuol dire: se voglio trionfare sul
mio avversario -e questo lo vuole qualsiasi partecipante a questi giochi
sociali come la matematica, il diritto, la filosofia, ecc.- devo trionfare
secondo le regole del gioco particolare nel quale sono inserito, secondo le
regole del campo. Per "uccidere" il mio avversario, se sono un
matematico, devo confutarlo attraverso una dimostrazione un po' diversa, o
attraverso l' invenzione di una soluzione un po' diversa [dalla sua]. Se voglio
"uccidere" il mio avversario, essendo io giurista, devo usare degli
argomenti giuridici, e solo argomenti giuridici. Grazie a questa autonomia
degli universi -perché è di questo che si tratta- ogni universo ha il suo
nomos, ha i propri principi costitutivi, la propria legge fondamentale, diversa
da quella dell' universo contiguo. L'universo filosofico ha un nomos
diverso da quello scientifico; l'universo sociologico ha un nomos diverso da
quello psicologico. Ad esempio, la frase di Durkheim "bisogna spiegare il
sociale attraverso il sociale" è una tautologia che definisce l' universo
sociologico. Molto spesso gli atti di costituzione, i nomoi propri di ogni
campo, sono delle tautologie. L'universo artistico è l' universo nel quale gli
atti artistici hanno come unico fine l'arte, è l'arte per l'arte. Gli
universi matematici sono universi nei quali si entra solo se si è matematici.
Kelsen ha chiamato queste tautologie originarie delle leggi fondamentali...
Kelsen difatti ha cercato di fondare una teoria pura del diritto, una teoria
"internalista" del diritto indipendente dalle condizioni sociali.
Ogni universo ha le sue tautologie originarie, delle leggi fondamentali, che
vanno accettate se si decide di far parte di quell' universo. Ma non si tratta
semplicemente di accettare di rispettare delle leggi; per essere capaci di
accettare queste leggi occorre anche avere la competenza che permetta di
accettare queste leggi. In altre parole, si accede ad un campo solo se si ha un
certo capitale, una certa conoscenza, che è la condizione per entrare nel
gioco, e anche la condizione per avere successo nel gioco.